
“Look what I just found on the ice!”.
Quando Tom mi mostra lo spezzone di corda viola faccio un salto indietro nel passato. Ho speso ore di scalata a cercare una traccia dei miei passaggi sullo sperone, ma niente.
La giornata di scalata non comincia proprio al massimo. Il campo 3 non è uno dei migliori che abbia mai piazzato. Si trova all’interno di un crepaccio sul bordo sinistro del canale Mummery, appena a destra della porta di ingresso dello sperone. E’ abbastanza protetto rispetto alle slavine che scendono dal canale, ma è anche una specie di ‘buca da golf’ per tutta quella neve che vi scivola dentro dalla parete dello sperone.
Quando siamo arrivati non ci sembrava vero di trovare uno spazio piano proprio lì, dentro il crepaccio. Spianato il cono di neve che ci intralciava, abbiamo montato la prima delle due tende. Purtroppo il cono di neve, in una notte agitata e nevosa come è stata quella appena trascorsa, si è riformato in poche ore. La nostra tenda è stata sommersa.
Rahmat si è alzato di scatto: “Non c’è aria, stiamo soffocando”.
Sono steso nel sacco a pelo, indosso la tuta in piuma, sono una specie di bruco stretto dentro la sua tana per non disperdere neanche una caloria:
“Are you sure that is not the altitude sickness?” (Sei sicuro che non è il male di montagna da altitudine?”.
Rahmat fa cenno con il capo che non è l’altitudine.
Tasto con il gomito la parete della tenda per capire a che livello la neve esterna è arrivata. Una pressione costantemente crescente continua a spingermi sul lato sinistro riducendo il mio spazio vitale. Io e Rahmat siamo stretti spalla a spalla.
Allora capsico, la neve copre quasi completamente la tenda e ci ha ridotto l’ossigeno. Ecco perché siamo entrambi svogliati e letargici.
Per un attimo un brivido mi passa dalla testa fino alle budella, bisogna muoversi e fare qualcosa. Reagisco d’istinto come se avessi all’improvviso chiarezza di cosa devo fare. Rahmat mi ansima sul collo, ma è immobile.
“I go out, don’t worry!” ( Vado fuori, non preoccuparti).
Cerco di aprire la cerniera della tenda. In quell’istante realizzo che anche l’ingresso è bloccato dalla neve. Cerco una piccozza per scavare un varco di uscita, ma mi rendo conto che sono tutte fuori dalla tenda. Apro tutta la cerniera, tra il muro e il tetto della tenda ci sono una trentina di centimetri ancora non sommersi. Tiro pugni con i guanti e riesco a infilarmi in quel buco fino a uscire. Trovo la pala e comincio a disseppellire la tenda.
Sono le tre del mattino e scavo per un’ora, poi comincio a patire freddo e stanchezza. Rahmat è dentro che cerca di sistemare tutte le cose che abbiamo ammassato in mezzo al gelo e alla confusione.
“Karim, Karim, I need some help!” ( Karim, Karim ho bisogno di aiuto!).
Karim e Tom sono a 2 metri da noi, nella nuova tenda che abbiamo montato su una piazzola ricavata creando un terrazzo di neve sul fianco del crepaccio.
Karim esce insieme a Tom e liberiamo definitivamente le due tende. Ci rificchiamo nei sacchi a pelo verso le 5 del mattino ma nessuno di noi ha voglia di dormire. La situazione ci ha allarmato ed il tempo non migliora, continua a tirare vento ed a nevicare.
Alle 7 cominciamo a sciogliere la neve per preparare tè e la colazione.
“Rahmat, how do you feel?” ( Rahmat, come ti senti?).
“Not feeling well” ( non bene ),
“It’s better you go down as soon as possible” ( è meglio che tu scenda il prima possibile ).
Dopo un breve scambio di opinioni a distanza tra le tende, Rahmat si accorda
con Karim per scendere. Karim ha un dolore alla schiena che non lo ha fatto dormire tutta la notte, anche lui è provato. Si preparano e dopo un saluto veloce li vediamo sparire al di là della cresta del crepaccio.
Con Tom siamo disorientati, e ora che facciamo?
Dobbiamo cambiare strategia, decidiamo di smontare una delle tende. Se la lasciassimo montata mentre scaliamo, rischieremo di ritrovarla seppellita. Ci diamo da fare smontiamo e infiliamo tutto il materiale non necessario in una sacca da deposito. Il vento e la neve continuano ad accanirsi, con qualche breve momento di tregua. Non abbiamo molto spazio per operare e se posi qualcosa sulla neve rischi che finisca inghiottita e scompaia allo sguardo. Bastano pochi centimetri.
Tom mi fa una proposta, poche parole ma molto chiare: sappiamo che domani farà bel tempo anche se i Jet Stream (venti d’alta quota) che abbiamo sopra la testa continueranno a soffiare, ma almeno ci sarà il sole e non le nuvole. Sappiamo anche che sta per arrivare una perturbazione, molto difficile da prevedere con esattezza. Posso contare su Filippo Thiery, che mi segue da anni qui e con cui abbiamo sviluppato un tandem molto efficace, ma entrambi sappiamo che i venti sono cosa veramente dura da predire. Quando i Jet Stream sono vicini il rischio che si abbassino e ci prendano in pieno è molto alto.
Con i dati che abbiamo mi sento in mezzo tra l’incudine ed il martello. Con #scalatestesso ho imparato a scindere la posizione di stratega da quello di alpinista che desidera sempre e solo scalare, ma con montagne cosi complesse e su vie nuove dove l’ignoto ha il suo peso e l’inverno complica tutto, azzeccare la strategia ha una importanza vitale. Le giornate di bel tempo si contano sulle dita delle mani e dobbiamo essere capaci di farci trovare nel posto giusto al momento giusto, altrimenti non saremo in grado di scalare le parti più dure nei momenti di bonaccia.
Tom azzarda: “We can climb today with few things, tent, sleeping bags, materass, stove and foods for one night, just to reach 6000m and sleep one night there. We could start now and use tomorrow for climbing more up or just see the mountain condition” (possiamo scalare oggi con poche cose, tenda, sacco a pelo, il materassino, il fornello, e poco cibo per una notte giusto per raggiungere i 6000m e passare una notte li. Potremmo partire ora e usare domani per scalare un po più su e vedere come sono le condizioni della montagna).
Guardo fuori e mi tasto le gambe, l’idea piace tanto anche a me. L’alternativa è un’altra notte a campo 3 e aspettare la mattina sperando nel bel tempo ed in un vento migliore.
Decidiamo di scalare subito e subito siamo delle macchine perfette, ci coordiniamo, usiamo la tenda di Tom per infilarci le mie cose e il sacco da deposito per buttarci dentro le attrezzature di Karim e Rahmat.
Smontiamo la tenda e siamo pronti per pensare alla scalata. Negli zaini giusto il materiale per passare una notte e poi chiodi da roccia, due corde, friends, dadi, due corde nuove da 7,7mm, e via, si parte.
Il vento continua a soffiare e ci troviamo velocemente alla base del primo canale di accesso allo sperone, dopo aver scalato una placca glaciale. La particolarità di questa via è che una colata di ghiaccio e neve si insinua al centro dello sperone creando una sorta di via di accesso alla sommità. Ghiaccio, neve e roccia si alternano per creare una linea elegante e superba verso la vetta del Nanga Parbat.
Il tiro a cui sono più affezionato è quello iniziale, ti immette dentro la via con passaggi di misto verticali per alcuni metri. Tom guida la cordata e sale quei metri con fine maestria fino a fissare una sosta poco sopra. Lo vedo felice, mentre cerco di farmi spazio tra neve, roccia e vento lancio un grido di gioia. Siamo dentro!
Dentro lo sperone e nel nostro flusso personale continuiamo a scalare, tiro dopo tiro di corda, cercando di non lasciarci vincere dal vento e dagli spindrift che continuano a scendere dalla parete. Lo spindrift è una specie di colata di neve polverosa spinta dal vento che ti investe. Non è pericoloso come una valanga o come una slavina, ma è molto fastidioso e rende la scalata un inferno di ghiaccio. Anche sopra la nostra testa, oltre la parete che ci sovrasta, ogni tanto sbruffi di neve polverosa ci ricoprono, togliendoci visibilità per alcune decine di secondi. È una cosa che incute timore.
La lotta interiore è superba, quanta paura è giusto provare prima di abbandonare la prova? Quando si arriva al limite che di fa fare dietro front? Quando smetterà di fare turbini di neve e comincerà la fase di bel tempo? Se accade nel primo pomeriggio, prima di sera, avremo la possibilità di trovare una maledetta piazzola e rifugiarci nella tenda.
Questo limite è difficilissimo da stabilire e dipende anche da una serie di variabili difficili da predire. Molte scalate falliscono perché ci si ritira troppo presto, altre invece finiscono male perché si spinge troppo il limite troppo in là. Chi scala ha ben presente questo gioco e lo gioca al meglio delle sue capacità.
Stiamo spingendo in là i limiti umani e personali e questo richiede anni di preparazione, capacità di osservazione, percezione del proprio stato emotivo e fisico, percezione dell’ambiente, capacità di applicare una strategia, di crearla corretta, saperla cambiare se le variabili tempo e stanchezza hanno superato i limiti di guardia. Spesso riduciamo tutto a termini semplici: avventura, esplorazione, scalata. Dietro c’è una combinazione complessa di studio, esperienza e capacità personale di gestione delle situazioni più estreme.
Quando guardiamo la foto di una parete, fino a studiarla nei minimi dettali stiamo in realtà valutando una serie di aspetti difficili da capire se non si ha un’esperienza diretta della faccenda.
Tempo fa ho scattato una foto dello sperone visto da sotto. Il Mummery appariva molto meno verticale e schiacciato.
Tom aveva visto bene quella foto e tutte le altre, quando arrivo in sosta mi dice:
“Dalle foto questa verticalità era proprio difficile da immaginare”.
Lo guardo mentre sistemo la maschera e veniamo di nuovo investiti da uno spindrift. Tom è a un metro da me e scompare alla mia vista. Dopo un minuto tutto riappare.
Essere capaci di osservare e riportare la realtà che si è visto e non che si è immaginato è una grande capacità che va allenata. Anche nella vita quotidiana.
Scaliamo un tiro verticale e cerchiamo una piazzola su cui piantare la tenda, ma non c’è verso di trovarla. Questo è uno dei grandi problemi dello sperone, 1100m di verticalità che sviluppano probabilmente 1500m per circa 30 tiri di corda, su cui è difficilissimo trovare uno spazio per piantare una tenda.
Purtroppo l’idea che avremmo avuto una calo del vento nel pomeriggio, è solo una valutazione errata. Abbiamo raggiunto il nostro limite, il vento, la stanchezza che abbiamo accumulato e la mancanza di una piazzola ci costringono a cambiare tattica. Dobbiamo scendere. Decidiamo di lasciare il mio zaino come deposito, ci spostiamo verso la parete e lo fissiamo a delle viti da ghiaccio. Una manovra delicata da fare sotto l’assedio di vento e spindrift e con le mani gelate.
Si aggiunge la maschera che completamente ghiacciata mi impedisce la vista. Devo toglierla e una folata di neve mi investe gli occhi, mentre cerco di guardare in alto. Un dolore forte e secco mi fa lacrimare. Le lacrime si ghiacciano in un attimo. Tom mi vede in difficoltà e si occupa di fissare un’altra vite da ghiaccio sulla parete. Quando mi riprendo ho imparato la lezione. Siamo pronti a buttarci giù dalla parete a forza di corde doppie.
Abbiamo sbagliato strategia?
Avremmo dovuto aspettare un giorno a campo 3?
Come sarà il tempo domani?
Sarà veramente bello o soffierà ancora questo vento maledetto?
Lascio scorrere via i pensieri senza fare resistenza, finchè si esauriscono e mi lasciano libero di concentrarmi sulla discesa.
Fissiamo delle soste che ci saranno utili per il futuro e scendiamo lasciando il mio zaino appeso sulla parete. Resterà li? Mi viene da ridere mentre mi dico che è un’altra delle scommesse di questa spedizione.
In breve e velocemente scendiamo dalla parete mentre il vento non accenna a diminuire. Arriviamo a campo 3 velocemente, ma siamo vicini alla notte. È chiaro che nessuno dei due vuole rimanere in quel buco a dormire, ma abbiamo fame e sete.
Nella tenda Tom mi intima: ”you must drink” ( devi bere) e mi porge il bicchiere del thermos pieno di acqua calda. Poi scaldiamo neve e facciamo bollire l’acqua per mangiare un liofilizzato. Si fa notte e viviamo alla luce delle lampade frontali.
Mi cambio e lascio la tuta in piuma a campo 3, mentre mi domando se ritroveremo tutto il campo dopo la perturbazione.
Un altra scommessa, e con Tom ridiamo.
Campo 2 è separato da Campo 3 da un ghiacciaio molto complesso, fatto di enormi crepacci, seraccate, e pareti verticali. Trovare foschia o avere il vento in faccia riduce di così tanto la visibilità da renderlo veramente temibile. Farlo di notte significa che sei fuori di testa o che sei davvero un esperto e hai grande fiducia nei tuoi mezzi. E’ cosi che riconosci i veri professionisti, quando si destreggiano senza esitazione nelle condizioni più difficili. È questo che mi colpisce di Tom, nessuna esitazione e perfetto controllo della situazione.
A notte piena partiamo da campo 3, avverto via radio il campo base di farci trovare la cena pronta. Scendiamo immersi nei turbinii della neve e man mano che superiamo crepacci, che aggiriamo passaggi pericolosi aumenta l’ossigeno nell’aria e con lui le nostre energie. Arriviamo al campo base alcune ore dopo, ci aspettano un piatto di pasta e il sacco a pelo asciutto.
Mentre mangio nella tenda grande del campo base, mi domando se ho fatto bene tutto e qual era il mio scopo. Il desiderio di fare sempre di più è placato dalla stanchezza e dal tepore del sacco a pelo. Chiudo gli occhi con la domanda di come sarà la mattina seguente e se sarò capace di accettare gli eventi.
Tiro dritto fino alle 8 quando l’impulso di aprire la tenda è più forte di ogni altra cosa. Guardo fuori, c’è il sole. Poi guardo meglio e mi rendo conto che in vetta c’è un vento folle. Sullo sperone lo stesso. Baffi di vento bianco, vento misto a neve, su ogni cresta della montagna. Il cuore e la testa si alleggeriscono, se fossimo stati su sarebbe stato un inferno di vento.
Mi costringo a ricordare il mio scopo principale per questi giorni, rifornire campo 3 e fare una puntata a 6000m e al massimo una nottata lì. Il risultato ottenuto è un carico di materiali depositati oltre i 6000m, la prima scalata della stagione sullo sperone e le prime soste fissate di discesa sulla parete. Eppure non sono completamente soddisfatto.
A mezzogiorno il vento si placa per alcune ore prima della notte.
Mi viene da sorridere e lascio scorrere i pensieri, imparo ciò che devo imparare e mi congratulo con me stesso per quello che abbiamo fatto, cosi come la sera prima Rahmat e Karim hanno fatto con noi. Incrocio lo sguardo di Tom e gli si legge la voglia di essere lassù, sotto il sole, a scalare.
Sorrido: “It can happen, it’s a game inside us and with the mountain!” (può succedere, è un gioco dentro di noi e con la montagna).
Ricambia il sorriso, ora possiamo goderci il campo base. Sono molto stanco e per la prima volta durante la spedizione dormo anche il pomeriggio.
Come mantenere il focus e non demoralizzarsi?
Tutti questi pensieri a volte si insinuano nelle nostre anime fino a farci vedere solo ciò che avremmo potuto fare di più, invece di godere per quello che siamo riusciti a fare.
Abbiamo scalato lo sperone nella sua prima parte, cosa che nessuno ha mai avuto il coraggio di fare oltre a me, da solo e poi insieme a Elisabeth Revol.
Per questo messaggi di amici, di stima, di conferma di ciò che stiamo facendo spesso sono importanti, sono un punto di vista esterno che ci aiuta a mantenere la concentrazione e a non cedere alla fatica e alle difficoltà.
Ripenso alla mia bottiglietta, alla speranza di ritrovarla nelle prossime salite, penso alla difficoltà di trovare un posto buono per un bivacco, penso allo spezzone di corda viola che ha trovato Tom.
Ripercorro gli istanti in cui decide di riusarlo per attrezzare una sosta. Quando salirò voglio recuperarlo e portarmelo a casa.
Guardo le foto che ha scattato Tom e finalmente, dopo due giorni di riposo, riesco a godermi ciò che abbiamo appena fatto.
Quanto influisce la stanchezza e la pressione nella nostra capacità di percepire le cose? Quanto influisce su una lite la mancanza di dati o la variabilità degli stessi?
Al termine di questo grande viaggio che per me è una vera svolta di vita mi sono ripromesso di lavorare ancora di più su #scalatestesso, per aiutare le persone a vincere le sfide della vita attraverso tecniche estreme.
Rendere utile una cosa che può sembrare solo divertimento sarà una della sfide del mio futuro. Forse è follia, forse è una visione di qualcosa di nuovo, forse è un buco nell’acqua, eppure sono convinto che la strada è già tracciata, bisogna solo avere il coraggio di riconoscerla e percorrerla.
Mi chiedo se anche tu che mi leggi hai una folle visione della vita. E non parlo di scalate impossibili, parlo di qualcosa di nuovo che stai progettando in cui molti non credono o che faticano a capire. Magari hai avuto una visione che sarà reale nel futuro. Se è così, ti auguro di non fermarti.
Se hai avuto il coraggio di arrivare fin quaggiù, all’ultima pagina di questo racconto, allora complimenti, ti do il ben venuto nel ‘team dei folli’ che a modo loro vogliono cambiare le cose!
A presto Daniele
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